Il manifesto, 15 marzo 2013
Nelle ultime elezioni italiani una formazione politica, «il movimento 5 stelle», ha avuto un ottimo risultato elettorale, facendo leva sul fatto che è un movimento e non un partito. Hanno spesso parlato della dimensione sociale ed etica della loro esperienza, fattore che fa andare sullo sfondo la dimensione politica, culturale. Come valuta lei questa esperienza?
Ho letto del movimento 5 stelle. Più che un movimento sociale è un movimento politico che allo stato attuale non contempla il riconoscimento delle diverse componenti sociali al suo interno. Più che altro è un movimento segnato da ambivalenza, caratteristica che riguarda anche molti movimenti sociali e politici del presente. Non sono però interessato da qualificare negativamente il «movimento 5 stelle». Alcuni aspetti possono essere negativi nel presente, ma storicamente possono svolgere una funzione positiva. Ciò che va interrogata l’ambivalenza.
La crisi iniziata nel 2007 non sembra finire mai. Ogni ricetta proposta per risolverla. Siamo condannati a dover vivere in uno stato di crisi permanente?
Sono propenso a sostenere la tesi che siamo ancora dentro gli effetti della crisi del ’29 dalla quale il capitalismo non si è mai del tutto ripreso. Quella è stata la madre di tutte le crisi del Novecento. Ha avuto effetti drammatici, come la seconda guerra mondiale, al termine della quale in molti hanno sperato che la situazione ritornasse alla «normalità». Per tre decenni un forte movimento politico socialdemocratico e riformista ha provato a modificare lo sviluppo capitalistico, mettendolo al riparo da eventi catastrofici come quello del ’29.
È però evidente che dal 2007 in poi, il mantra dominante era che il neoliberismo era fallito, ma che era però impossibile tornare a forme di gestione keynesiana dell’economia...
Certo, il liberismo ha fallito. D’altronde era un po’ folle pensare che la vita sociale o politica dovessero essere gestite seconda la logica del massimo profitto per le imprese. Non lo pensava neppure Adam Smith, ritenuto il padre nobile del liberalismo economico. L’economia, tuttavia, è solo parte del problema. Da parte mia, continuo a ritenere necessaria una prospettiva storica dell’attuale situazione. Viviamo in una realtà che risponde a un modello di società – capitalistica, borghese – che dura da alcuni secoli. Quello che è in discussione è la possibilità di quel modello di funzionare ancora, cioè se ha la possibilità di garantire l’integrazione di bisogni, aspettative, desideri che maturano nella realtà sociale. Non so rispondere positivamente o negativamente a tale quesito. Quello che vedo manifestarsi è il superamento di un’attitudine maschile, virile nell’affrontare i problemi. In base a questo modello maschile, abbiamo visto élite (economiche o politiche) che tendevano a dominare il resto della società. Da tempo vediamo invece manifestarsi altri modelli di comportamento, meno polarizzati, più empatici. Da questo punto di vista andrebbero valutati attentamente gli effetti del femminismo nelle nostre società. Al di là delle proposte che i diversi e eterogenei movimenti femministi hanno fatto, vediamo all’opera un’attitudine femminile nella gestione delle contraddizione e delle relazioni sociali che puntano a integrare, a non escludere richieste, proposte, stili di vita che non coincidono con quelli dominanti. Un’integrazione, tuttavia, che non cancella le differenze, anzi tende a valorizzarle.
E’ una banalità dire che in presenza di benessere è più facile sia l’universalismo dei diritti che il rispetto delle differenze. In alcuni paesi, compresi quelli europei, ciò che ancora rilevante è il soddisfacimento dei bisogni, di un superamento di stati di necessità e non tanto il rispetto di differenze culturali. Ma il problema resta, perché l’obiettivo è un universalismo delle differenze. Negli anni passati, lo studioso canadese Charles Taylor chiedeva il riconoscimento dei diritti delle comunità schiacciati dai diritti universali. I liberali americani, ma anche molti europei, rispondevano che quelli che andavano salvaguardati era i diritti universali. Una discussione molto poco interessante. Importante è la combinazione, appunto, di universalismo e differenze. Faccio un esempio che è esemplificativo di come l’universalismo delle differenze non comporti necessariamente la cancellazione dei diritti civili, politici e sociali affermati nella modernità. Nel Chiapas, gli zapatisti chiedevano e chiedono il rispetto dei diritti degli indigeni. Non sono diritti individuali, ma diritti comunitari. L’esperienza di autogoverno delle municipalità ha fatto emergere il fatto che c’era riconoscimento delle comunità ad autogestire la vita in comune secondo modalità non coincidenti con quelli dominanti. Al tempo stesso, gli stessi zapatisti chiedevano il rispetto dei diritti individuali politici, civili, nonché il diritto delle donne all’uguaglianza, fattore che non sempre contemplato nelle culture dei nativi indigeni. La crisi attuale rende tutto più difficile, lo so. Siamo in una situazione sempre sull’orlo della catastrofe. L’obiettivo è ricostruire una polis, cioè una dimensione politica ancorata proprio all’universalismo delle differenze.